Corre la
diavolessa nella notte, corre alla ricerca del suo bambino. E
bussa di porta in porta. E le viene aperto. E chi la vede si
commuove.
Lei ha gli
occhi grandi, la pelle scura, l’affanno della corsa che si
confonde nel pianto della voce. A tutti chiede “avete visto il
mio bambino?”
Povera donna
pensa chi sta sull’uscio, in un moto di pietà, di simpatia,
lei è anche così bella…Fino a quando lo sguardo non le tocca
i piedi.
E’ uno scatto
di fastidio, di più, d’orrore, la porta chiusa in faccia, la
diavolessa gira gli zoccoletti, tip tap, tip tap; sul selciato
è come passasse una povera capretta. E’ quello il segno che
è una diavolessa.
Nel blu cupo
della notte, ritagliata in alto sulla pagina, si stagliano le
cupole di un paesaggio del sud del mondo. E tutti i simboli che
ne rendono l’idea sono in collage, isolati, accostati,
sovrapposti, di carta, di piume, messi in opera da
pennelli che prediligono colori forti, da forbici che
cercano rappresentazioni stilizzate e parti per il tutto, in un
organico disegno che porta a compimento il destino della
diavolessa.
Mentre la
diavolessa vaga nella notte (tip tap, tip tap, i suoi piedini di
capretta), la gente si rinserra in casa, non vuole vederla, non
vuole accoglierla, lei, pensa la gente, che è malvagia, che
finge il dolore e la perdita di un figlio, per gettare il male
oltre ogni soglia.
Sfinita, per
sempre disperata, la diavolessa si ripromette una cosa sola. Se
non il suo bambino, ormai perduto, sarà suo figlio il primo
bambino che incontrerà.
E là sul
limitar del bosco, proprio dopo avere formulato il suo
proposito, come succede nelle fiabe e quindi pure in questa, la
diavolessa vede seduto in terra, spalle voltate, inconfondibile,
un bambino. Che, di faccia, con tante treccine fitte in testa,
si rivela una bambina. Anche lei segnata, anche lei cacciata.
Per via dei suoi piedini strani, la gente pensa che abbia a che
fare con la diavolessa.
L’abbraccia
forte quest’altra figlia la diavolessa, la solleva, la porta,
perché quei piedini strani non la facciano dolorare ad ogni
altro passo. E mentre va, la diavolessa sente il suo avanzare più
leggero, non avverte più il tip tap, non si sente più con gli
zoccoletti. Ma è buio, e l’attenzione è protesa ad una meta,
è la voglia di un rifugio, di una casa. E, all’improvviso,
dopo molto affanno dopo molto camminare, all’improvviso, è
proprio come si fosse arrivati davvero a casa. Eccola.
Finalmente, come l’altra, come quella dove stava con il suo
bambino, forse proprio quella. L’approdo, la fine delle
tribolazioni.
La diavolessa
depone la bambina a letto, poi struscia i piedi sul parquet.
Piedi snelli e bruni e giovani. Piedi perduti nella perdita di
un figlio; piedi ritrovati nell’arrivo della sua bambina.
Marie Ndiaye
La diavolessa
Traduzione di Francesca Lazzarato
Illustrazioni di Fabian Negrin
Mondadori (Junior-8), 2002,
p.46, € 5,20
ISBN 88-04-50211-8
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