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Sophie sui tetti di Parigi di Katherine Rundell, trad. di Mara Pace, ill. di Terry Fan, Rizzoli, 2015, 283 p., € 14,50

Stare in alto. Stare fuori. Lontano dal mondo degli altri. Vicino al cielo, vicino agli uccelli.
Cominciò con l'arrampicarsi sull'armadio di casa, per sfuggire agli incubi dei gorghi del mare, seguitò sugli alberi come il barone rampante. Poi si abituò ai tetti, dove si esercitava al violoncello e dall'alto guardava le mamme con i loro bambini. Lei, certa che la sua mamma ci fosse, anche se tutti si ostinavano a dire di no.

Sophie, salvata dalle acque come un Mosè, ma acque di mare, dopo un naufragio, alla deriva nella custodia di un violoncello. Sophie, una bambina dai “capelli luminosi come fulmini”, che declamava Shakespeare, vestiva calzoni colorati e comodi per poter suonare il violoncello. La voce segreta di una musica proveniente da quello strumento la chiamava, la seduceva, quasi fosse un piffero magico, le ingiungeva di partire, di inseguirla, orientata da quel suono e da un canto che slittava in un ballo sfrenato.

Era il periodo di Londra e di Charles, lo studioso che “parlava inglese con le persone, in francese con i gatti e in latino con gli  uccelli”, che l’aveva raccolta dal mare, e accudita  e amata e cresciuta negli intenti di un anticonformismo libero dai lacci del perbenismo imperante e perseguito dall’assistenza sociale che deplorava i suoi metodi educativi e che scoccato il tredicesimo anno della ragazzina sentenziò la separazione dei due.

Fu così che con Charles Sophie approdò a Parigi, in fuga dall’orfanotrofio dove volevano confinarla. A Parigi, lei lo avvertiva con certezza, dove finalmente si sarebbe ricongiunta con la parte mancante di sé, specchiandosi nelle sembianze di sua madre.
Sui tetti di Parigi, Sophie trovò compagnia. Una popolazione di coetanei “ballerini del cielo”, funamboli buoni e cattivi. Il primo fra tutti, il più vicino, un po’ amato, si chiamava Matteo.

Una storia senza tempo, quasi il sapore di una fiaba, se non allusioni che potrebbero collocarla in una fin de siècle che trapassa al Novecento, con echi vittoriani, multipli di atmosfere dickensiane, aura di miti che recupera bimbi come primitivi al di fuori della civiltà, contro una civiltà che li rifiuta, proponendoli come abitanti di un tempo sottratto alle cattive intenzioni degli adulti. Una grande storia poetica, non priva di risonanze letterarie, emozionante, che vibra dell’originalità di una scrittura ricca di immagini e metafore. Come una musica, sempre più veloce, “in tempo tagliato”.

(di Rosella Picech, da LiBeR n.107)
 

   

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ALICE NEL PAESE DEI BAMBINI
ideazione, titoli e testi di Rosella Picech
realizzazione grafica di Lena Chiodaroli

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