Hunger
Games, architettura e metafore
A distanza di anni, (ormai tre dal capitolo fondativo Hunger
Games) il romanzo di Suzanne Collins, bestseller
internazionale, con i suoi seguiti (Hunger Games - La ragazza di
fuoco, Hunger Games - Il canto della rivolta), continua a
primeggiare nelle classifiche di vendita dei libri, anche sostenuto
dal film, uscito recentemente, che ha rinfocolato la curiosità
suscitata dal romanzo al suo primo apparire e allargato la schiera
dei lettori.
Interessati prevalentemente all’architettura dei “Giochi” e alle
metafore che vi sono sottese, lettori del primo libro, che inventa
l’universo di Panem, Hunger Games, vi proponiamo queste
considerazioni.
Al momento della dichiarazione di indipendenza (1776), gli Stati
Uniti d’America erano costituiti da 13 stati, ex colonie del Regno
Unito. Nell’era di Panem, nazione sorta dalle ceneri di un disastro
apocalittico, nei luoghi in cui nei “tempi antichi” sulla carta
geografica s’identificava il Nord America, sono ugualmente 13 i
distretti in cui Capitol City, fulgido faro della nazione, esercita
il suo potere assoluto di vita e di morte sui cittadini. Per meglio
dire, all’epoca dei fatti narrati, ne risultano 12, il tredicesimo
era stato spazzato via durante la rivolta (fallita) che portò alle
armi gli abitanti di tutti i territori contro l’insopportabile
dittatura della capitale. Da allora, lo strapotere di Capitol City
punisce le popolazioni ribelli, affamandole e asservendole, per
somma crudele rivalsa e proprio perverso diletto, al rito annuale
degli “Hunger Games”.
La terminologia escogitata nel romanzo di Suzanne Collins,
Hunger Games, bestseller internazionale, ha una valenza
simbolica, che rimanda alla Storia (l’antica Roma e la sua politica
di Panem et circenses) e alla realtà contemporanea (la
“civiltà” dello spettacolo, della televisione, dei reality show),
proiettando quest’ultima in un futuro dominato da una onnipotente
tecnologia (mirabolanti interventi sulla natura e sull’uomo). Il mix
esplosivo, che è sommamente spettacolare da un punto di vista
narrativo ed estetico, non rinuncia al pungolo della riflessione.
Il focus della rappresentazione di questo mondo, il mondo di Panem,
di Capitol City, dei distretti, mira al distretto 12 (“degli
Appalachi” : anche questo dice qualcosa “dell’antica America”) e
precisamente guarda da molto vicino alla vita di Katniss,
protagonista indiscussa, tanto da affidarle il compito di una
narrazione in prima persona.
C’era stato il padre a proteggere Katniss bambina, nell’infernale
distretto del “Giacimento”, l’amato padre minatore, voce d’usignolo,
ingegnoso cacciatore di frodo, esperto raccoglitore (ritornare
all’indietro a culture preistoriche per garantirsi la sopravvivenza?).
Perso il padre, Katniss prende il suo posto nella responsabilità
della famiglia: una madre fragile, una sorella amatissima. E
prenderne il posto significa innanzitutto provvedere ai bisogni
primari di sopravvivenza. Dunque procacciare il cibo per sé e per
loro. Ingegnandosi. Diana cacciatrice sedicenne sulle orme del
padre, accorta nei baratti di generi essenziali, divenuta esperta
nei commerci clandestini, Katniss cerca di sfuggire all’occhiuta
vigilanza dei dominatori. Il clima sociale del distretto è di totale
oppressione. Permette solo l’accesso alle “tessere” (per generi
alimentari razionati) in cambio dell’iscrizione alla lista delle
“chiamate”. Più chiedi tessere, che non bastano mai per sfamarsi
quotidianamente, più aumentano le iscrizioni, più rischi di
diventare “tributo” dei Giochi. Paghi con te stesso il cibo che ti
serve per vivere. Questo il terribile marchingegno che conduce agli
Hunger Games.
I giochi antichi delle arene, i giochi d’oggi televisivi, i reality
show, diventano il supporto degli Hunger Games narrativi. In un
teatro che nulla ha da invidiare alla guerra si preparano e si
eseguono giochi di morte. Spettacolari. E terribili. Ancor più
terribili se il nemico da sconfiggere e abbattere, proprio come una
preda di caccia, è l’amico dolce e gentile (forse un amore), che un
giorno, sfidata la madre furiosa, ti gettò una pagnotta. A te che
morivi di fame. Davvero una tragica beffa finire così. Ma alla
radice degli Hunger Games sta proprio questo paradosso. Ti affamano
e ti dicono divertimi con questi giochi di morte, uccidi per
vincere, anche l’amico, forse un amore, e avrai pane per te e per il
tuo distretto, gloria e potere.
Al meccanismo ingegnoso e malefico non sfugge Katniss, che entra nel
sorteggio al posto della sorella. Di un gioco duro, violento,
bestiale, giocato tutto al cospetto dello spettatore lettore.
Ma non si entra subito in gioco.
Il romanzo dosa la suspense. La prepara. S’aggira nella misera vita
di Katniss e del suo distretto. Insiste nella rappresentazione di
quella vita di fame, riconsiderandola in ogni inciampo della
condotta di Katniss, per trovare ogni volta ragioni di assoluzione.
Il motivo della competizione esasperata, che porta alle estreme
conseguenze nell’arena, domina anche ogni fase che precede
quell’entrata. Il rito della “vestizione”, anticipato dalla
preparazione del corpo -pulito, levigato, truccato-, è eseguito nel
rispetto di un’immagine esaltante, che buchi gli schermi televisivi
di Capitol City e dei Distretti, dell’universo intero di Panem,
catalizzando l’attenzione e il tifo degli spettatori, a maggior
gloria e consenso politico dei dominatori e finalizzato anche a
procurare sponsor ai “tributi” che, nel momento dell’azione” se ne
potranno avvantaggiare. Ogni “tributo” in gara spasmodica con
l’altro, ogni squadra di “preparatori” protesa a surclassare i
colleghi dediti ad altri “tributi”.
Il potere e lo spettacolo televisivo che sottomette a quel potere
risultano evidenti in ogni passaggio del racconto. Non togliendo
comunque nulla all’immediatezza della rappresentazione delle
emozioni.
Mozzano il fiato “le immagini”, di guerra, tanto vere appaiono. Ma
se in guerra il nemico è un uomo, tanti uomini, in Hunger Games, il
nemico, i nemici, si contano: sono ventiquattro assieme a te: dodici
maschi e dodici femmine dei dodici distretti, dai dodici ai diciotto
anni. Li conosci tutti per nome. E allora la guerra diventa ancora
più guerra.
Dell’intreccio, delle “eliminazioni” progressive, delle strategie e
delle tattiche, adottate per sopravvivere, da Katniss e da Peeta,
sodale e nemico, si riportano impressioni forti e ammirate. La
capacità della Collins di “andare in guerra” è terribile e diventa
struggente quando si tratta di questa guerra. Doppiamente
combattuta. Per vero, aspramente per rimanere vivi. E per finta,
come quando si tratta di recitare all’esplosione dell’amore, perché
un “romanzetto romantico” non si nega a nessun reality show,
purtroppo dimenticando lo sbocco del gioco mortale. E qui sta ancora
una volta l’abilità dell’autrice di fondere i piani della
rappresentazione. Per farci toccare con mano come “giocare alla
guerra”, ancora una volta si confonda con la finalità della guerra.
(Hunger Games di Suzanne Collins, Mondadori, 2009, 370 p., €
14,90)
(di Rosella Picech, Alicenelpaesedeibambini.it)